LA RESISTENZA: MITO UNIFICANTE PER GLI ITALIANI?                           


MASSACRO PARTIGIANO DI CIVILI IN VAL PELLICE
Corrado Lesca
 
    Nella notte fra il 5 e 6 ottobre 1944, vennero affissi in Torre Pellice alcuni manifestini ciclostilati, che riproducevano la pag. 88 apparsa poi su IL PIONIERE giornale partigiano e progressista, anno I, n. 15, del venerdì 6 ottobre 1944. Eccone la riproduzione (testuale):
    L'ordine soprariportato (con la tracotante e risibile appendice finale) era stato eseguito verso le ore 3 del 5 ottobre: le persone elencate furono prelevate nelle loro case. Il Ferraris, proprietario dell'Albergo Nazionale ubicato all'inizio di Via Mazzini (ora scomparso), fu ucciso nella sua abitazione, probabilmente perché aveva tentato di reagire,. Il Pittavino, abitante a Luserna San Giovanni, fu ucciso da un partigiano soprannominato "Stalin" presso il cimitero di tale località, e di lui stranamente non si parlerà più, nemmeno al processo riferentesi alla strage. Così come nessuno si curerà di sapere chi e quanti erano gli omissis indicati nella lista. Probabilmente queste presunte spie erano state giudicate indegne di interesse e di troppo trascurabile importanza per farne conoscere il nome.Le persone prelevate a Torre Pellice furono condotte e raggruppate nel piazzaletto dove sorge il monumento all'Alpino ed uccise con una sventagliata di mitra. Poi fu loro inferto il colpo di grazia con una rivoltellata alla testa. 
    Dopodiché i partigiani procedettero al metodico saccheggio delle abitazioni delle vittime: furono asportati, fra l'altro, (come risulta da atti notori) i materassi, le coperte, le lenzuola, le tovaglie, gli ombrelli (utilissimi per non bagnarsi nei combattimenti sotto la pioggia…), le macchine da cucire, le posate, gli indumenti degli adulti e dei bambini (dai cappelli alle calze), le cravatte, le pellicce, gli orologi da polso, le forbici, le penne stilografiche, i gioielli, gli specchi da parete, ed il tutto fu stipato su carri a cavallo.
Quando al mattino si provvide, grazie all'interessamento del medico condotto Dott. Gardiol, al ricupero dei corpi ci si accorse che l'Onorina Einard, era gravemente ferita ma ancora viva e fu quindi trasportata d'urgenza all'Ospedale Valdese. Saputa la cosa, i partigiani fecero una puntata all'Ospedale stesso e la freddarono in corsia.
La decisione circa la scelta delle vittime e la loro fucilazione era stata presa collegialmente da Roberto Malan, comandante di Divisione, Riccardo Vanzetti comandante della Brigata "Val Pellice" , Carlo Mussa Ivaldi commissario politico della stessa Brigata e da un certo Dino Buffa. 
Le operazioni sul terreno furono effettuate da due reparti, comandati rispettivamente dal tenente Modena e dal comandante Giovanni Nicola, facenti parte della Brigata sopra nominata.
Il Giovanni Nicola, comandante di battaglione della formazione partigiana "Giustizia e Libertà", al processo dichiarò che " aveva ricevuto dal comandante Vanzetti ordine scritto di arrestare e fucilare l'avv. Ollivero e le altre sei persone (nell'ordine di fucilazione risultano sette, nda) e di asportare dalle loro abitazioni tutto quanto poteva servire per i partigiani feriti ed ammetteva di aver eseguito gli ordini aggiungendo che gli oggetti asportati erano stati distribuiti ai vari comandi partigiani."
L'operazione del prelevamento e dell'esecuzione in pieno paese, potè svolgersi con la massima tranquillità, in quanto il presidio della Guardia Nazionale Repubblicana, acquartierato nella caserma "G. Ribet", era stato richiamato a Pinerolo fin dal 13 settembre precedente. 
    In questa tragica vicenda, che oltre agli otto morti elencati fece ben altri morti (gli omissis) e ben venticinque orfani (il solo Pittavino aveva undici figli), riappare ancora una volta l'accusa ricorrente da parte dei partigiani per giustificare omicidi e stupri: era una spia.
    Accusa elementare e praticamente imparabile: come poteva infatti l'accusato o l'accusata dimostrare la sua innocenza, di fronte a quanto affermato falsamente da qualche vicino malevolo o da qualche nemico personale o ancora immaginato da qualche comandante partigiano, alla ricerca di azioni eroiche e senza rischi? Com'era possibile trovare un testimone a favore, così coraggioso da affermare che l'imputato o l'imputata "non" era una spia, con la certezza di essere coinvolto anche lui, come favoreggiatore o complice?
    Sempreché ci fosse un qualche simulacro di processo, che nel caso in esame è mancato del tutto. Tant'è che il P.G. nella sua requisitoria afferma che " la procedura usata nei confronti dei giustiziati non è stata certamente corretta, poiché si omise di contestare i fatti e di sentire e vagliare le difese degli arrestati" e conclude: "Si deve convenire che l'azione degli imputati fu condotta con eccessiva superficialità."
    D'altra parte occorre tener presente che l'avvocato Ollivero, ben noto professionista, ed i tre fratelli Merlo, titolari di un mobilificio, erano impegnati con le loro attività di lavoro e non avevano certo tempo d'andare su e giù per le montagne per accertarsi del dislocamento di reparti partigiani. Meno che mai ci sarebbe andato il dottor Trossarelli, pensionato sessantacinquenne. E comunque nessuno di loro avrebbe potuto avvicinarsi a fabbricati dove erano dislocati comandi partigiani, che si presume fossero vigilati da un congruo numero di sentinelle, atte ad individuare ed a neutralizzare qualunque persona sospetta.
    La verità è una sola: gli unici in grado di sapere tutto sulla ubicazione dei comandi erano gli appartenenti alle formazioni stesse, che erano conseguentemente gli unici a poter fornire informazioni attendibili a fascisti o tedeschi, attirati dalle sostanziose ricompense che questi promettevano sui loro manifesti. Con le 100.000 lire che venivano elargite, ad esempio, per la cattura di un "capo-ribelle" , allora ci si poteva comprare un alloggio. 
Il comandante partigiano Antonio Prearo, comandante della colonna "Val Pellice" della 5a Divisione di "Giustizia e Libertà", nel libro autobiografico ed agiografico "Terra ribelle", accenna ad un uomo arrestato dai suoi partigiani, che avrebbe ricevuto addirittura 500.000 lire se fosse riuscito ad ucciderlo ed un milione (da versare alla famiglia) se, per realizzare questo scopo, avesse perso la vita. Ma queste cifre appaiono veramente esagerate, tenuto conto oltretutto della secondaria importanza del suddetto comandante (tanto che fu successivamente estromesso dal comando), il quale ha evidentemente cercato di "rivalutarsi".
    E' peraltro veramente strano constatare che l'idea elementare ed ovvia che la spia, o le spie, si trovassero fra gli stessi partigiani non sia venuta in mente ai comandanti e che questi, invece di fare opportune indagini nel loro stesso ambiente, abbiano preferito far uccidere persone assolutamente innocenti. Ma evidentemente i comandanti non avevano nessuna intenzione di inimicarsi i loro uomini, facendoli oggetto di sospetti o di indagini: era molto più facile rafforzare la loro vacillante e precaria autorità scegliendo come capri espiatori civili qualunque, del tutto estranei alle formazioni. Per di più con la gradevole prospettiva di offrire ai propri uomini (peraltro non identificati…) un cospicuo bottino. E senza far correre loro il minimo rischio. 
    La selezione delle vittime appare basata su due caratteristiche essenziali: il fatto che fossero quasi tutti benestanti (e quindi tali da garantire un pingue bottino) e che fossero di religione cattolica (uniche eccezioni il Dr Trossarelli, di origine valdese, ma con tutta la famiglia cattolica e la signora Einard), evidentemente per non creare risentimenti nell'ambiente religioso locale. La corte giudicante in effetti prese anche in considerazione il movente religioso del massacro, ma naturalmente mancavano prove convincenti in proposito e l'argomento fu lasciato cadere.
    Nel gruppo, l'unica persona di modeste condizioni era la signora Einard, che però aveva una colpa gravissima: suo figlio si era arruolato nella G.N.R. Arrestato, probabilmente a Pinerolo, fu poi fucilato proprio davanti alla già citata caserma "Ribet" nei primi giorni della "Liberazione".
    La figlia primogenita del Pittavino, Teresina, nata nel 1926, dopo l'assassinio del padre, si arruolò fra le Ausliarie. e fu uccisa anche lei dai partigiani.
Ad ogni modo, l'innocenza delle persone assassinate a Torre Pellice è pienamente emersa nel procedimento penale seguito alla denuncia delle vedove del dr Trossarelli e dell'avv. Ollivero, sporta nel novembre 1949, e conclusosi con la sentenza della Sezione Istruttoria della Corte d'Appello di Torino del 14 marzo 1951, che ammetteva la totale estraneità delle vittime (definite però "giustiziati" , quasi a giustificare la liceità dell'azione) ai fatti contestati e concludeva: "Questo riconoscimento appare doveroso per riabilitare la memoria dei giustiziati e lenire l'atroce dolore delle famiglie"
    Va peraltro notato che all'epoca i fascisti (o presunti tali) od i tedeschi uccisi dai partigiani o da terroristi erano considerati come "giustiziati", mentre i partigiani uccisi da tedeschi o fascisti risultavano di norma "trucidati". E questa terminologia resistenziale sopravvive sulle epigrafi di tombe e monumenti e sui libri che celebrano i fasti della Resistenza.
    La sentenza, che riabilita i sette civili fucilati conclude poi, in base a considerazioni alquanto contorte, che non si è trattato di omicidio plurimo premeditato, e riesce a derubricare il reato, riducendolo semplicemente ad omicidio colposo e conseguentemente afferma "che i fatti addebitati nel capo di imputazione devono considerarsi azioni di guerra (!!) ai sensi del D.L.L. 12 aprile 1945 (notare la data), n. 191 e pertanto dichiara gli imputati non punibili
A titolo di opportuno raffronto, si tenga presente che il Maggiore Herbert Kappler, implicato nella rappresaglia per l'attentato di Via Rasella, peraltro consentita dal diritto consuetudinario del tempo di guerra, fu dichiarato responsabile della morte di 5 ostaggi in più, immessi dagli italiani, ovviamente a sua insaputa, nella lista dei fucilandi (10 per ogni tedesco ucciso – in realtà i tedeschi uccisi risultarono ben 42 e non solo i 33 iniziali, per cui i fucilati avrebbero dovuto in realtà risultare 420), e per questo condannato all'ergastolo (oltre a quattro anni di segregazione, trascorsi a Gaeta in una cella scavata nella roccia) ed escluso nei decenni successivi, con disumano accanimento, da qualunque forma di amnistia o di grazia.
Va la pena di ricordare che all'ergastolo, sempre per la rappresaglia di Via Rasella, sono stati anche tardivamente condannati il 7 marzo 1998 l'allora Capitano Erich Priebke (assolto peraltro nel processo di primo grado, il 1° agosto 1996) e l'allora Maggiore Karl Hass. 
    Per quanto riguarda i saccheggi, la sentenza sostiene che " è appena da osservare che le requisizioni (?!) ordinate dal Comando partigiano rientrano espressamente nel concetto di azioni di guerra (?!), mentre di quanto può esser stato asportato dai singoli partigiani, non identificati (?!), fuori dai limiti degli ordini ricevuti, non possono essere chiamati a rispondere gli attuali imputati".
    Che i comandanti non sapessero chi erano i loro sottoposti, ai quali avevano pure ordinato di fucilare e di razziare, e che non siano stati tenuti responsabili delle azioni da questi compiute, è cosa che lascia veramente interdetti e che comunque dà una ben chiara idea dell'indisciplina e dello stato d'insubordinazione latente che regnava nelle formazioni partigiane.
    Così come appare sconcertante la derubricazione dell'omicidio plurimo premeditato ad omicidio colposo e quindi amnistiabile, in base all'articolo unico del sopra citato Decreto legge luogotenenziale, secondo il quale "sono considerate azioni di guerra e pertanto non punibili gli atti di sabotaggio, le requisizioni e ogni altra operazione compiuta dai patrioti per necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica". Secondo quanto è scritto nella sentenza " Non pare dubbio, in linea di principio, che la eliminazione di spie rientri nel concetto di operazione compiuta per necessità di lotta ". Peccato che, com'è emerso dal processo, non vi fosse nessuna seria prova che permettesse di considerare le persone assassinate come spie al servizio del nemico, ma esistessero in realtà solo vaghe dicerie propalate da persone malevole od invidiose.
    Secondo l'affermazione del Malan, riportata in sentenza, " in sede di comando era stato deciso di processarli (i fucilati, nda) ma che essendosi verificate delle puntate nemiche estremamente precise contro le sedi di alcuni reparti, il Vanzetti aveva riunito il Tribunale militare che aveva sentenziato l'immediata fucilazione."
    In effetti, il 6 settembre un modesto contingente di Gebirgsjäger , trasportato da un autobus civile in affitto (con un cannoncino da montagna da 75/13 a rimorchio, assicurato con corde), era salito a Bobbio e poi a Villanova per stabilire qualche caposaldo (al Prà ed al Rifugio "Granero"), a ridosso della linea di confine. Si trattava di presidi di entità oltremodo ridotta, in quanto la testata della Val Pellice, ancorché confinante con la Francia, era di ben scarso interesse strategico, data l'inesistenza di strade di valico. Il 13 settembre successivo, come già abbiamo detto, il presidio della G.N.R aveva abbandonato Torre Pellice (evidentemente per lasciare il posto ai Tedeschi), per cui la cittadina e la zona circostante erano provvisoriamente in mano ai ribelli, che vi poterono conseguentemente agire indisturbati. 
    Verso la fine del mese vi furono in Val Pellice passaggi di truppe tedesche, che effettuarono rapide puntate con pattuglioni nelle valli circostanti, per ripulirle dai partigiani e per assicurare ile retrovie delle zone di confine, ormai passate in prima linea.
    Alcuni giorni dopo il massacro, due compagnie di Gebirgsjäger si acquartierarono a Torre Pellice ed agli Airali. Il piccolo presidio di Bobbio Pellice disponeva in tutto e per tutto, quali veicoli corazzati, di due autoblinde (Sd. Kfz. 222, a quattro ruote motrici ed armate con una mitragliera da 20 mm), che servivano per effettuare i collegamenti con la casermetta di Villanova, con i presidi di Torre Pellice e degli Airali e con il Comando insediato a Pinerolo. 
    D'altra parte alla 5a Gebigsjäger Division "Die Gams" (Il Camoscio), a cui appartenevano le truppe sopracitate, era stato affidato il compito gravosissimo di attestarsi a difesa in alta montagna su una catena frastagliatissima e dispersiva, dal Colle del Gigante (Monte Bianco) al Colle della Maddalena, che imponeva difficili problemi logistici ed organizzativi. La predetta Divisione era composta da circa 17.000 uomini, da quattordici autoblinde, da 92 bocche da fuoco di piccolo e medio calibro (75 e 105 mm), oltre ai veicoli per i trasporti e le comunicazioni. E con queste scarse truppe la divisione è tuttavia riuscita a bloccare gli Alleati su quasi 200 km di frontiera fino alla fine della guerra. 
    Ad ogni modo le esigue unità tedesche inviate in Val Pellice furono sufficienti, con la loro sola presenza, per indurre i partigiani ad abbandonare frettolosamente la Valle, nei giorni a cavallo dell'eccidio, il quale, proprio per questo motivo, appare ancora meno giustificato.
    La scusa, accampata dai comandanti, di aver fatto asportare i materassi per adagiare i feriti è semplicemente ridicola, anche se è stata presa per buona dalla Corte: allora nella zona i montanari dormivano su pagliericci riempiti di foglie di granturco, rumorose ma sanissime, ed i feriti (ma quanti erano?…nessuno lo ha chiesto) non pretendevano certo materassi di crine o di lana, che oltretutto, dato l'ingombro e la scarsa maneggevolezza, non avrebbero consentito il trasporto su sentieri e mulattiere. E senza contare che nella zona i feriti e gli ammalati venivano di norma ricoverati e curati nel locale e compiacente Ospedale valdese (a questo proposito il già citato comandante Prearo racconta che un reparto della G.N.R. salito il 17 settembre 1944 da Pinerolo, per un rastrellamento estemporaneo, fu attaccato nei pressi all'Ospedale, dove i militi cercarono riparo; proprio in quel giorno vi erano ricoverati tre partigiani, che peraltro nessuno infastidì).
    Di fronte a dibattimenti e a sentenze così singolari non bisogna tuttavia dimenticare il periodo in cui si è svolto il processo (1951) ed occorre tener presente un dettaglio importante (che viene spesso trascurato): i giudici di allora avevano iniziato la loro carriera sotto il Fascismo e quindi, per continuare a farla, si guardavano bene dal pestare i piedi al nuovo regime e cercavano ovviamente di far dimenticare i loro trascorsi, profondendo pesanti condanne per chi aveva militato nella R.S.I. e dimostrandosi oltremodo clementi e generosi verso gli appartenenti alla Resistenza.
    Comunque, in questo caso, grazie all'azione delle due vedove, si è almeno arrivati ad una messa sotto accusa dei partigiani responsabili del massacro e ad una sentenza di riabilitazione per gli uccisi.
    Ma quante altre persone, durante e dopo la guerra civile, sono state prelevate ed uccise dai partigiani, con il facile e ricorrente pretesto di essere o di essere state spie, mentre invece erano solo vittime di vendette o di odi personali? . E quante di queste persone sono scomparse nel nulla, sotterrate in luoghi nascosti, in modo da non lasciare tracce degli omicidi? 
 
 
IL POPOLO D'ITALIA N. 9-10 Lugli-Agosto 2000 (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

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